Pesca nel Mediterraneo, c’è chi punta all’estinzione

Overfishing e reti illegali: «Meno pesci ci sono, più il prezzo sale. E i tonni diventano una miniera d’oro»

MILANO – Pesca incontrollata, regole non rispettate, riscaldamento globale e specie in estinzione. Il Mediterraneo soffre. E con esso gli abitanti dei Paesi che vi si affacciano. Nonostante la Commissione europea vigili ed emetta leggi e regolamenti. Con l’Italia appena finita per l’ennesima volta sul banco degli imputati con l’accusa di overfishing.

LE RETI DA POSTA DERIVANTI – A fine settembre la Commissione europea ha deciso l’invio di una lettera all’Italia in cui le chiede di conformarsi alla vecchia sentenza della corte Ue sull’uso illegale delle reti da posta derivanti (tra cui quelle usate per il pesce spada) nel Mediterraneo. La Corte di giustizia dell’Ue, insieme al commissario alla Pesca Maria Damanaki, ha sottolineato come «l’Italia continui a violare il divieto relativo alle reti derivanti». E non basta. Nel documento si legge anche che «se non saranno adottati opportuni provvedimenti entro due mesi dal ricevimento della lettera, la Commissione potrà punire Roma con pesanti sanzioni». La controversia su questo tipo di reti risale al 1992 quando l’Ue ne ha vietato l’uso per una lunghezza superiore a 2,5 chilometri (in risposta a una moratoria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1991 all’uso di grandi reti da posta derivanti) fino al divieto generale per la cattura di tonno bianco, tonno rosso e pesce spada, a prescindere dalla lunghezza delle reti. Nonostante i ripetuti richiami, i pescatori italiani continuano però a fare come vogliono e le autorità non prendono adeguati provvedimenti per far rispettare la legge. Il tutto mentre l’uso di attrezzi illegali da pesca ha un impatto devastante sull’ambiente, in quanto danneggia gli habitat e la fauna marina e mette a repentaglio la sostenibilità della pesca nel suo complesso. Con conseguenze anche economiche. L’overfishing costituisce infatti una minaccia per il reddito dei pescatori onesti, delle comunità costiere e per il futuro della pesca in generale. A denunciare queste violazioni è stata anche Oceana, organizzazione internazionale per la protezione della fauna marina, il cui direttore esecutivo Xavier Pastor ha dichiarato «Stiamo parlando di vent’anni di illegalità. Ecco perché ci auguriamo che la lettera della Commissione abbia un seguito».

GLI ALTRI NON SONO DA MENO – Sempre secondo Oceana, dopo il divieto del 2002 anche la Francia non è stata ligia. E mentre l’Italia nascondeva le reti fuori legge sotto il nome di «ferrettara» su cui il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali sta investigando (l’ultimo sequestro è stato in Calabria in settembre), anche in Marocco e Turchia si continuano a utilizzare tecniche di pesca non autorizzate. E proprio per questo motivo, secondo Greenpeace, salvare il mare Mediterraneo sembra diventata un’impresa molto impegnativa. Anzi, impossibile. Per riuscirci infatti «si dovrebbero fermare le reti da pesca per almeno venti anni». Paul Watson, uno dei fondatori dell’organizzazione ambientalista, durante una conferenza a Evian ha dichiarato apertamente che il problema è da ricondurre al comportamento dei 23 Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che fanno razzia di ogni specie di pesce che vive in questo prezioso ecosistema.

ECONOMIA DELL’ESTINZIONE – Parole durissime quelle del capitano Watson. Che sono state illustrate con precisione, a proposito dell’overfishing di tonno rosso. «Tutti sembrano girarsi dall’altra parte. I Paesi del nord Mediterraneo lo pescano dicendo “se non lo facciamo noi lo faranno i tunisini”. I tunisini lo pescano dicendo “se non lo facciamo noi lo faranno i libici”. E così via. Ma la verità è che c’è un interesse a portare la specie vicino all’estinzione, per una questione di soldi». È il meccanismo di domanda e offerta: «Meno pesci ci sono, più il prezzo sale, quindi se la popolazione ittica è ridotta al minimo chi vende i tonni è seduto su una miniera d’oro. È quella che si chiama “economia dell’estinzione”». E intorno al tonno rosso si è effettivamente scatenata una sorta di mattanza, con i giapponesi al centro di un enorme business: da qualche anno si dice infatti che la Mitsubishi Corporation stia acquistando il maggior numero di tonni rossi possibile e li stia congelando per portarli all’estinzione e poi rivenderli a un prezzo più alto. Illazioni? La presidente di Sea Shepherd France, Lamya Essemlali, ha tuonato: «Questo massacro perdurante è intollerabile, le uccisioni devono avere fine». Anche per il Wwf si tratta di contenere gli interessi economici delle multinazionali del pesce. Secondo l’organizzazione, delle 900 specie rinvenute nel Mare Nostrum, cento sono commercialmente sfruttabili e alcune di queste hanno un valore di mercato molto alto. Circa 1,5 milioni di tonnellate di pesce viene pescato ogni anno con metodi distruttivi, poco selettivi, e spesso illegali, con enorme impoverimento della biodiversità.

IL SERPENTE SI MANGIA LA CODA – Così se a soffrire per le politiche miopi e lo scarso controllo della comunità internazionale e dei singoli governi sono le popolazioni dipendenti dalla pesca nei Paesi del Terzo mondo, anche chi vive di questa attività nel Mediterraneo non se la passa tanto bene. E le previsioni non sono certo rosee. Premesso che il rispetto delle norme sulle reti sarebbe già di per sé un buon passo in avanti, i problemi del mare e della pesca sono anche altri. Secondo Marta Coll, ricercatrice del Csic all’Istituto di scienze del mare (Icm) di Barcellona, ci si mette anche il cambiamento climatico a complicare le cose. Un esercito di oltre 600 specie aliene ha infatti invaso il Mediterraneo. Più della metà proviene dal mar Rosso attraverso il canale di Suez. Tra le altre, il 22 per cento è arrivato con le navi transoceaniche, mentre una su dieci viene dagli scarichi agricoli. La Commissione europea (che ha lanciato Horizon 2020, operazione di salvataggio del Mediteranneo) denuncia infatti che l’80% delle minacce agli organismi marini proviene dalla terraferma. Più della metà dei nuclei urbani con oltre 100 mila abitanti manca di impianti per il trattamento delle acque residuali, il sessanta per cento delle quali viene scaricato direttamente in mare. La soluzione alla crisi della pesca è dunque occuparsi del problema a partire da terra?

«NON SAPPIAMO NULLA» – Bhavani Narayanaswamy, portavoce per l’Europa del progetto Census of marine life, è scettica. «Non sono sicura che questa strategia, possa riportare l’ecosistema mediterraneo alle sue condizioni precedenti». Secondo un altro ricercatore del Csic, Josep María Gasol, è necessario un ulteriore passo indietro. «La cosa più sorprendente è che abbiamo dimostrato di non sapere nulla». I nuovi dati del censimento parlano infatti di 17 mila specie presenti nel bacino del Mediterraneo, quasi il doppio rispetto alle ultime stime. «E senza dubbio – ha aggiunto Gasol – non ne conosciamo ancora almeno il 75 per cento. Il che significa che potrebbero estinguersi senza che nessuno se ne accorga». Pescatori e abitanti delle coste inclusi. Insomma, se il Mediterraneo soffre, e con esso la sua popolazione marina e terrestre, la colpa è sicuramente della pesca incontrollata. Ma non solo. Ecco perché difendere il Mare Nostrum potrebbe diventare una delle priorità dei prossimi anni solo a condizione che organizzazioni nazioni e internazionali, nonché enti scientifici e governi, si mettano a lavorare insieme mettendo da parte personalismi. E mettendosi in testa che far rispettare le leggi è il primo passo. A partire dall’Italia.

Fonte: Corriere.it

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