Somalia: il tesoro dei nuovi pirati

Un «fatturato» da 150 milioni e un esercito di 1.500 corsari. Attaccate 160 navi, un centinaio catturate

Che quella zona dell’oceano Indiano fosse infestata dai predoni del mare lo si sapeva da oltre duecento anni, tant’è che gli inglesi chiamarono quelli che ora sono gli Emirati Arabi Uniti, Costa dei Pirati. Che nel XXI secolo quelle acque diventassero pericolosissime e a forte rischio abbordaggio, pochi lo sospettavano. Negli ultimi ventiquattro mesi la pirateria nel golfo di Aden e nel tratto di oceano Indiano davanti alla Somalia è passato dallo stadio di impresa familiare a basso contenuto tecnologico a una vera industria sofisticata, efficiente e ad alto profitto.

Secondo un calcolo delle Nazioni Unite il numero di pirati, è passato da una cinquantina di «addetti» nel 2006, a 1.500 alla fine dell’anno scorso, tant’è che il Consiglio di sicurezza ha approvato due risoluzioni (la 1816 e la 1838) che in pratica autorizzano qualunque Stato interessato alla protezione delle rotte a combattere la pirateria. La Somalia è priva di un governo stabile dal 1991 ed è devastata da una cruenta guerra civile. Non esiste un’economia organizzata e ciascuno per vivere fa quel che può. Quindi pescatori e miliziani hanno unito le loro forze e, grazie all’impunità di cui di fatto godono, hanno trasformato la pirateria in un business milionario. Nel 2008 siano state attaccate almeno 160 navi di cui un centinaio catturate. I riscatti hanno fruttato 150 milioni di euro. Ma non solo. Il grande successo dei corsari somali sta provocando un effetto emulazione. Secondo Robert Davies, della Hiscox Insurance Company, società specializzata in assicurazioni marittime, «in zone, per esempio, come la Nigeria e il Sudamerica». Da qui la decisione dell’Ipsema, l’Istituto di previdenza per il settore marittimo, di estendere la copertura degli equipaggi delle navi italiane, anche agli atti di pirateria.

Nel mare del Corno d’Africa, da cui passano 30 mila mercantili all’anno, incrociano ormai una cinquantina di navi da guerra di diversi Paesi. Dalla Danimarca al Canada, dall’India alla Germania, alla Malesia, alla Russia, alla Francia, alla Germania, agli Stati Uniti, solo per citarne alcuni. Insomma ci sono tutti tranne l’Italia. Eppure la Somalia era una nostra colonia. Nonostante la presenza militare, la azioni dei pirati sono diventate sempre più audaci. Ormai non sono solo bande di somali. Secondo l’Onu alla lucrosa attività si stanno dedicando anche gang di yemeniti. L’8 settembre i bucanieri hanno sequestrato il cargo ucraino Faina, con a bordo 33 carri armati, sei cannoni antiaerei, sei lanciamissili calibro 122 e 36 lanciarazzi. È ancora nelle loro mani. Il 10 novembre è caduta in trappola la superpetroliera Sirius Star, con due milioni di barili di petrolio (dal valore di 100 milioni di dollari), rilasciata il 9 gennaio dietro pagamento di tre milioni di dollari, paracadutati da un piccolo aereo e in parte finiti in mare quando la barca con i pirati, che zigzagavano ebri di gioia, si è rovesciata mentre rientrava a terra.

I negoziati per far tornare a casa la Faina, controllata a vista da due navi da guerra americane e una russa per impedire che qualcuno porti a terra il prezioso carico, sono ancora in corso: «A nessuno interessa la sorte dell’equipaggio – ironizza al telefono con il Corriere Segulle Ali, autonominatosi portavoce dei pirati -. Tra poco vi sorprenderemo: cattureremo una nave da guerra». Secondo Matt Brydan, coordinatore del gruppo nominato dal Consiglio di sicurezza per monitorare le violazioni dell’embargo sulle armi in Somalia, «i pirati, parte integrante delle comunità che abitano la costa, sono organizzati come imprese private: ci sono i finanziatori, con una strategia militare e una pianificazione e gli sponsor, che procurano le barche veloci, il carburante, le armi e le munizioni, i sistemi di comunicazione e i salari dei bucanieri. Abbiamo i loro nomi: Garad Mohamud Mohammed, Mohammed Abdi Hassan “Afeweyne”, Fara Hersy Kulan “Boyah”. Possono contare su spie dislocate nei maggiori porti limitrofi». Matt Bryden scrive nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza: «Per incrementare il proprio raggio d’azione i pirati utilizzano navi madri, pescherecci che stazionano in alto mare. E fanno rifornimento non solo nei porti somali ma anche a in Yemen, a Al Mukalla e Al Shishir. Individuata la preda, dalle navi madre si staccano tre o quattro barchini veloci con a bordo da quattro a otto uomini armati che danno l’arrembaggio. Hanno a disposizione telefoni satellitari, apparati Gps in grado di determinare la posizione geografica, serbatoi supplementari di carburante, piccoli radar, binocoli potentissimi, rampini e scale telescopiche». Il primo pirata che sale sul mercantile abbordato ha un premio extra: normalmente una gigantesca 4 per 4: «Abbiamo intercettato alcune mail e scoperto che tra i pirati c’è un turnover continuo. Qualcuno è arrivato dall’Europa e dall’America, ha partecipato a un paio di sequestri, è stato pagato ed è tornato a casa», racconta Matt.

Il gruppo di monitoraggio ha anche individuato alcune donne somale residenti all’estero che si sono offerte di sposare pirati che così, in cambio di una cospicua cifra, possono ottenere visti per lasciare l’ex colonia italiana. Andrew Mwangura, a Mombasa monitora il traffico marittimo nell’oceano Indiano con l’organizzazione East African Seafarers’ Assistance Programme, sottolinea: «Nessuna nave somala, o con il carico di proprietà di uomini d’affari somali, è stata mai attaccata. In novembre, proveniente da Dubai, è arrivato regolarmente in tutta sicurezza a Mogadiscio un mercantile con 186 Suv nuovi di zecca, e poi zucchero, olio, carburante e altri generi da vendere al mercato. Altre navi continuano quotidianamente ad attraccare».

Esistono almeno due gruppi di pirati. Il primo opera a nord in Puntland (nord-est della Somalia). La loro base primaria è a Eyl, distretto abitato dagli issa mohamud, sottoclan della grande tribù dei migiurtini. Ma altre bande operano dai porti di Bosaso, Ras Alula, Ras Hafun, Bayala, Qandala, Bargal e Garad. Il secondo gruppo opera più a sud, da Harardhere fino a Chisimaio, e secondo Bruno Schiemsky, esperto che ha studiato per le Nazioni Unite l’inferno Somalia, sta stringendo un’alleanza con i gruppi fondamentalisti islamici al shebab («gioventù» in arabo, una sorta di talebani del Corno d’Africa). «Le gang di bucanieri sono interclaniche. Nel gruppo di Chisimaio lavorano assieme hawiya e darod (i due ceppi somali da anni in lotta per la supremazia ndr). Sono associati anche bantu (i senza clan, di solito reietti da tutti, ndr)». Secondo Schiemsky, l’organizzazione criminale è formata da diverse unità. Quella di sicurezza (28 uomini) difende le basi a terra. È dotata di tre tecniche (pick upcon un cannoncino o una mitragliatrice, ndr) che vengono spostate sulla battigia in caso di bisogno. L’unità di attacco sono due e si danno il cambio in mezzo al mare dove possono restare fino a 15 ore. Operano a non meno di 150 chilometri dalla costa. Ad Harardhere ci sono invece quattro unità ognuna con la propria specializzazione: localizzatori che individuano la preda e pianificano l’attacco, ex pescatori che conoscono il mare, armati che danno l’arrembaggio, negoziatori che sanno come ottenere il bottino più alto. I gruppi che operano a Chisimaio e Harardhere sono collegati e conducono spesso operazioni in comune. Per esempio, sempre secondo Schiemsky, la Sirius Star è stata catturata da un commando che veniva da Chisimaio ma è stata portata davanti ad Harardhere in attesa del riscatto.

Bruno Schiemsky è certo che i pirati somali possano godere dell’appoggio di un certo numero di espatriati che provvedono al loro training: «I corsi sono cominciati nel giugno 2008 e gli istruttori erano bangladeshi, yemeni e indonesiani». Informazioni confidenziali raccolte a Mombasa dal Corriere della Sera, parlano di istruttori occidentali al servizio dei corsari. «Si tratta di impiegati delle società di sicurezza che erano state incaricate dal Governo federale di transizione somalo di proteggere le coste. Insomma sono dei mercenari. Non sono stati mai pagati e così si sono riciclati loro stessi organizzando corsi di pirateria applicata. Per questo servizio sono stati pagati un milione di dollari», spiega un’autorevole fonte che chiede l’anonimato. Che i pirati godano della complicità delle autorità del Puntland (la repubblica semiautonoma e relativamente pacificata del nord est della Somalia) è fuori di dubbio, almeno secondo il rapporto del gruppo di monitoraggio dell’Onu. Lo stesso Mohammed Mussa Hersi, l’ex presidente (che avendo fatto due mandati non si è ripresentato un paio di mesi fa) aveva raccontato di aver dovuto cacciare un paio di ministri coinvolti nelle rapine del mare, e il vicecapo della polizia, Mohammed Adji Aden.

Un caso curioso è avvenuto quando il 4 aprile 2008 è stato sequestrato il lussuoso yacht francese Le Ponant. Una settimana dopo, pagato il riscatto, la nave è stata rilasciata ma quando i pirati con il loro bottino sono arrivati sulla spiaggia a Garad sono stati attaccati da uno stormo di elicotteri della Marina francese. Una parte del bottino è stata recuperata e sei banditi catturati e portati in Francia. Sono rimasti a Parigi un mesetto e poi rimpatriati. Uno di essi, infatti, era imparentato con l’allora presidente della Somalia, Abdullahi Yussuf.

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