Tornano le spadare fuorilegge Nascoste nei porti, ogni giorno in mare

Teoricamente, sono state “restituite” e pagate dall’Unione Europea affinché fossero riconvertite in sistemi di pesca meno devastanti per l’ambiente. Ma una parte della nostra flotta continua a usarle. L’ultimatum di Bruxelles. Partono multe e sequestri ed è guerra tra i pescherecci di frodo e la Guardia Costiera. E spunta la criminalità organizzata

Tornano le spadare fuorilegge Nascoste nei porti, ogni giorno in marePALERMO – Qualcuno le ha deposte e consegnate alle autorità, come Colt e Winchester allo sceriffo del villaggio. Altri invece, spinti dal denaro o dalla sopravvivenza, continuano a utilizzarle. Nascoste tra le banchine dei porti tunisini, o esposte in bella mostra nelle acque calabresi, le spadare, le reti killer del mare, bandite nel 2002 dall’Unione Europea, in Italia sono la prima causa di morte di capodogli e delfini che incappano nei suoi muri invisibili, trasformando il Mediterraneo in un gigantesco Far west, dove, dalla parte dei buoni, la posta in gioco è la salvaguardia della biodiversità marina. Per i pescatori pirata, invece, in ballo ci sono un mucchio di quattrini.

L’ultimatum per porre fine alla guerra del mare è arrivato da Bruxelles lo scorso 6 ottobre. L’Italia ha due mesi per voltare pagina. Sessanta giorni per cancellare dieci anni da fuorilegge. Una pazienza costata all’Europa ben 200 milioni di euro, la cifra stanziata dalla Commissione per la riconversione delle spadare verso altri sistemi di pesca meno devastanti per l’ambiente. Intascati gli assegni, i pescherecci italiani hanno tuttavia continuato a calare le reti fantasma. Le sanzioni questa volta però rischiano di far male. Confische e multe difficili da digerire quando chi deve pagare ha le tasche bucate. Già, perché i pescatori, dalla loro, puntano l’indice su fermi biologici, divieti e pesci tarocchi importati da acque straniere e venduti fino a otto volte meno dell’originale. Così il Mare Nostrum spa rischia la bancarotta. Trasgredire, per molti di loro, è l’unica strada per la sopravvivenza.

UN MARE DI FRODI.  Eppure solo un anno fa la pace tra pescherecci e capitanerie sembrava a un passo, con il cessate a fuoco dei pescatori di Bagnara Calabra, in provincia di Reggio Calabria, che davanti alle telecamere di giornalisti e curiosi, nel corso di un’affollata conferenza stampa, il 24 giugno dello scorso anno consegnavano le spadare alle autorità in cambio di qualche licenza per l’uso del palangaro. Sono stati in pochi però a seguire l’esempio.

Solo tra il 2005 e il 2009 sono state sequestrati 2.800 chilometri di spadare, quasi la distanza che intercorre tra Agrigento e Londra. Nei primi nove mesi del 2011, invece, sono state accertate ben 93 infrazioni che hanno portato al sequestro di 221 chilometri di reti illegali: un incremento, rispetto al 2010, pari al 64 per cento.

Nell’elenco dei fuorilegge pubblicato dalla fondazione Pew Enviroment, tra i 330 pescherecci dediti “alla pesca con reti illegali, figurano circa 103 unità che hanno usufruito di ingenti contributi pubblici dell’Ue e dello stato italiano (oltre 12,5 milioni tra il ’98 e il 2006) per la riconversione delle spadare verso altri sistemi meno devastanti per l’ambiente”. Ricevuti gli assegni, hanno continuato a trasgredire. Come il peschereccio San Francesco I, che naviga nelle acque di Palermo, beneficiario di un contributo pubblico di 37mila euro nel 2004 e sanzionato sei volte negli ultimi anni. E ancora, il Patrizia, sanzionato ben quattro volte tra Lipari e Milazzo nel 2007, dopo aver percepito circa 249mila euro di aiuti pubblici per la riconversione delle reti. O il Davide multato tre volte tra il 2005 e il 2008 per l’utilizzo delle spadare dopo aver intascato ben 303 mila euro di aiuti dal Piano europeo per la riconversione.

Evidentemente, il gioco regge la candela. E anzi, il sospetto degli ufficiali della Guardia costiera è che “i finanziamenti somministrati per la riconversione degli attrezzi da pesca siano stati invece dedicati all’acquisto di dispendiose attrezzature per proseguire in modo ancor più efficace le forme di pesca messe al bando”.

Da quando le spadare sono state messe al bando, infatti, le indagini hanno portato alla luce diversi stratagemmi adottati dai bracconieri per aggirare leggi e controlli. C’è chi spegne o manda in avaria la blue box, il trasmettitore automatico di posizione obbligatorio per le unità da pesca, o chi trasporta le reti illegali su imbarcazioni da diporto. Spesso, i sistemi di pesca leciti vengono usati per coprire quelli vietati: “Poiché la licenza di pesca prevede infatti quasi sempre anche l’uso dei palangari  –  scrive Vittorio Alessandro, comandante della Guardia costiera – gli equipaggi sottoposti a controllo dichiarano che gli esemplari di pescespada rinvenuti a bordo sono stati catturati con gli ami, che in realtà sono stati precedentemente applicati ad arte nella bocca dell’animale”.

Altro metodo usato è quello di mettere insieme più “ferrettare”, reti che sono lunghe al massimo 2,5 chilometri e il cui utilizzo è consentito oltre le 10 miglia dalla costa. “Le ferrettare sono molto simili alle spadare  –  spiega ancora Alessandro – E c’è chi approfitta di questa affinità per operare a proprio vantaggio. Si usano delle lunghissime barriere di ferrettare utilizzando spezzoni di rete nella quantità per ciascuno consentita. Unite pezzo per pezzo, le ferrettare si trasformano in gigantesche spadare, catturando nelle loro maglie decine di tonnellate di pescespada”.

I PORTI DI FAVORE. Li chiamano “porti di favore”. Sono le basi operative dei bracconieri e, secondo quanto emerso da alcune indagini, una fonte di guadagno per la malavita organizzata. Si tratta di piccoli moli o di porti stranieri dove vengono nascosti chilometri e chilometri di spadare. Come il porto di Biserta, in Tunisia, di fronte alle coste trapanesi. Qui arrivano le imbarcazioni dei bracconieri italiani, che scaricano le reti legali e caricano le spadare. Nel 2010, proprio a Biserta, sono stati intercettati tre pescherecci intenti a salpare gli attrezzi illegali a 40 miglia a nord dalla costa africana. L’operazione ha portato al sequestro di circa 11mila metri al primo peschereccio e di circa 15.500 al secondo, oltre a mille chili di pescespada.

Ma negli ultimi tempi, soprattutto da quando il Maghreb è in fiamme, a chi vuole eludere le leggi non serve andare poi così lontano. Lo sa bene il comandante Alessio Morelli della Guardia costiera: “Durante la stagione di pesca, alcune imbarcazioni “migrano” in altre regioni rispetto a quella di appartenenza per prendere, quale punto di riferimento, degli approdi minori, ossia degli specchi di mare destinati all’ancoraggio dove, data la minore presenza di personale, i controlli sono meno penetranti e continui”. E’ lungo l’elenco di “porti di favore” italiani individuati alla Guardia costiera: in Campania ci sono quelli di Sapri, Sorrento, Ischia, Policastro e Palinuro. In Puglia c’è Porto Cesareo, nel Lazio il porto dell’isola di Ponza, in Calabria quelli di Cirò Marina, Cariati e San Lucido. Il record spetta alla Sicilia: Isola delle Femmine, Cefalù, Porticello, Sant’Agata di Militello, il porticciolo dell’Arenella e quello Sferracavallo a Palermo, San Vito Lo Capo, Ustica, Riposto, Lipari, Santa Maria la Scala e Aci Castello. Forti dubbi permangono anche su alcuni porti della Sardegna, quali Porto Corallo, Capo Teulada e La Caletta Siniscola.

A favorire il proliferare di questi porti di favore c’è senza dubbio la carenza di risorse, lamentate da diverse capitanerie, per le attività investigative e repressive, soprattutto di quelle in mare. “Le autorità ti diranno che le infrazioni in mare sono diminuite – dice Antonio Pergolizzi di Legambiente – senza però svelarti che sono anche diminuiti i controlli. Al mare, troppo grande, si preferisce la terraferma”. Una carenza che ha fatto il gioco dei bracconieri. E della mafia.

LA MAFIA DEL PESCE. Secondo le dichiarazione degli inquirenti riportate nell’ultimo dossier Mare Monstrum di Legambiente, “a lavorare nel settore illegale non sono solo pescatori improvvisati, ma vere e proprie organizzazioni criminali (anche di tipo mafioso) armate di tutto per rastrellare ogni forma di vita presente nei mari”. E forse non è un caso se proprio in Sicilia, Campania e Calabria le spadare, o altre forme di pesca illegale, rappresentino ormai da tempo la regola.

Nell’antico borgo marinaro di Porticello, a circa 20 km da Palermo, lo Scaro, il caratteristico mercato del pesce locale, non dorme mai. Qui, nel 1992, secondo le dichiarazioni del pentito Spatuzza, attraccarono dal mare i 500 kg di tritolo che il 23 maggio di quello stesso anno avrebbero ucciso Giovanni Falcone e gli uomini della scorta. Ed è qui che lo scorso febbraio la mafia ha deciso di punire i pescatori del borgo. Prima hanno dato fuoco a un peschereccio, poi è stata la volta dei gazebo e per finire, qualche settimana dopo, due furgoni bruciati al titolare di una piccola azienda ittica. Perché? “Il mercato di Porticello continua a fare gola alla criminalità organizzata – risponde Giuseppe Cipriani, il battagliero ex sindaco di Corleone, oggi presidente dell’Associazione antiracket Bagheria – Vale 80 milioni ogni anno e qualcuno pretende di gestire un mercato parallelo del pesce, organizzando a modo proprio domanda e offerta e naturalmente fissando i prezzi”. “Nei grandi mercati di pesce al consumo – spiega Vincenzo Marinello, deputato del Pd, autore di un’interrogazione sulle inadempienze di Porticello – la mafia riesce ad attecchire il commercio usando i mercati per operazioni di riciclaggio. Un problema difficile da risolvere  –  continua –  anche perché nelle carte c’è poco o nulla”.

Secondo un rapporto di Confesercenti solo il business annuo legale della pesca ammonterebbe a circa due miliardi di euro l’anno. Difficile stimare i numeri dell’illegalità, invece. Ma secondo gli inquirenti le cifre sfiorerebbero il miliardo e mezzo.

Fonte: Repubblica.it

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