La Corea del sud processa 5 pirati

Riscatti per 12 miliardi di dollari, 1.181 lavoratori marittimi sotto sequestro a bordo di 53 navi. La pirateria ai danni delle navi che incrociano al largo della costa è ormai la prima fonte di reddito della Somalia. Non c’è modo per fermare questo fenomeno, e soprattutto non ci sono strumenti giuridici efficaci per condannare i pirati.

Ma nonostante i numeri impressionanti, fino a questo momento la battaglia sui mari ha fatto meno molti meno morti delle strade italiane. In questi giorni, però, qualche cosa si è rotto. Il 21 gennaio scorso la Marina coreana ha realizzato un blitz violentissimo a bordo della “Samho Jewelry”, nave sequestrata nell’Oceano Indiano. Nell’operazione i sequestratori hanno ferito gravemente il comandante. La risposta è stata una carneficina: otto pirati morti. I cinque superstiti (tra i 19 e i 25 anni) da ieri mattina sono sotto processo in Corea, a Busan, per tentato omicidio. Rischiano 10 anni. I media locali più critici hanno letto questa mossa come il tentativo, da parte di Seul, di riparare le brutte figure fatte a novembre con il bombardamento dell’Isola di Yeonpyeong e l’affondamento della nave “Cheonan” da parte della Corea del Nord. Per ora, l’unico risultato ottenuto è la minacciata ritorsioni da parte dei pirati contro le navi coreane nel Corno d’Africa: «Vendicheremo i nostri amici ammazzati ingiustamente – hanno fatto sapere i pirati in una telefonata all’agenzia Reuters -. State certi che non accetteremo più nessun riscatto dai loro armatori: bruceremo le loro navi e uccideremo tutte le persone che sono a bordo». Ma anche prima di queste minacce, il ministro della Difesa Kim Kwan-jin era stato allertato dai servizi segreti sulle possibili conseguenze del blitz. Così ora si teme per l’altra nave coreana ancora in mano ai pirati: il peschereccio “Golden Wave”, con 43 persone a bordo (ma i coreani sono soltanto due).

In base alla convenzione di Montego Bay, ogni Paese del mondo può giudicare qualunque persona che si macchi di reati ascrivibili alla pirateria marittima. Il problema, è che nella realtà sono pochi i Paesi che hanno un legislazione dettagliata in merito. Il rischio, come fa notare Ilja Richard Pavone, ricercatore presso l’istituto Studi giuridici internazionali del Cnr, è che si possano creare situazioni detentive incerte, nuovi “casi Guantanamo”. Oppure che i pirati chiedano asilo politico, sulla base della Convenzione di Ginevra. Danimarca, Usa, Gran Bretagna e recentemente l’Ue hanno così delegato l’incombenza dei processi a Paesi terzi, come il Kenya e più recentemente le Seychelles. La scorsa primavera è stato allestito a Mombasa un tribunale in collaborazione con l’Undodc (United Nations Office on Drugs and Crime). Finora la partita si è giocata in maniera delicata, a parte qualche caso clamoroso come la liberazione della “Maersk Alabama” nel 2009, dove perirono tre persone. Il blitz con otto morti – senza che la Marina lo abbia ancora giustificato adeguatamente e celebrato con un messaggio televisivo dal presidente coreano Lee Myung-bak – è un nuovo passo in avanti nell’escalation di violenza nel Golfo di Aden.

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