Celeste Soccol ,la misteriosa slitta marina–l’idroscivolante

Celeste Soccol ,la misteriosa slitta marina–l’idroscivolante

Arcidiavolo: il primo scafo con elica di superficie

Il giorno del solstizio d’estate coincideva, come sempre negli ultimi sessantacinque anni, con quello del mio compleanno (ovviamente, il sessantacinquesimo della serie) e, quando mi sono svegliato, fuori era ancora buio.

Il mio cervello mandava in continuazione un unico, ripetitivo, ridicolo (oltre che del tutto anacronistico) messaggio: “Sleddog, in inglese, è la slitta trainata dai cani. Questo mio cervello, io lo conosco appunto da ben tredici lustri. Avete presente l’incipit di “Herzog” di Saul Bellow, quello tradotto, nel 1965, da Letizia Ciotti Miller (con la preziosa collaborazione di Angelo Sonnino dell’ufficio rabbinico della Sinagoga di Roma e del mio antico amico Erich Linder) e edito da Feltrinelli? Quell’incipit che dice: “Se sono matto, per me va benissimo”. Ecco: io, lo stesso. Insomma, lo so proprio per certo che questo mio cervello é piuttosto bizzarro ma, se pensate che il tutto accadeva in Sicilia e che per quella occasione avevo deciso di festeggiare con una crociera alle Eolie con Antonella, Provvidenza detta “Nuccia” e Saro sul mio fantastico “Exodus volans“, capite che la bizzarria era davvero estrema: che c’azzeccano con il mare (quello delle Eolie, poi mica delle Lofoten) le slitte da cani, roba da neve e quindi da montagna o da ghiacciai sempre meno eterni? Non sapevo che il mio giocherellone preferito stava per farmi il più emozionante fra i regali.

Saltato giù dal letto, mi sono fiondato in studio dove il vecchio Hazon Garzanti (inteso come dizionario inglese-italiano) banalmente confermò: sled significa slitta. Fu allora che, finalmente, nel buio della notte e della mia mente si accese la lampadina.

Tutto era iniziato, a Venezia, qualche giorno prima. Ero andato a salutare le mie adorate sorelline Silvana e Gabriella, i loro mariti Nani e Pippo e quei 120 chili abbondanti di mio nipotone Sandro. Poiché era evidente che non ci saremmo rivisti prima del mio imminente genetliaco, avevano approfittato per consegnarmi i loro regali per quel fatidico giorno in cui, inesorabilmente, sarei diventato inabile alla produzione ufficiale del PIL nazionale: un pensionato, insomma.

Le sei barchette da 5,30 metri fuori tutto, realizzate da Celeste Soccol nel 1938 per la raccolta della posta nelle cassette disseminate in tutti i sestieri di Venezia. Non è escluso che un prototipo precedente a questa serie sia stato realizzato, nel 1933, per la miliardaria americana Barbara Hutton, che passò una lunga luna di miele all’Hotel Excelsior del Lido con il primo dei suoi sette mariti.

Ora, dovete sapere che Silvana e Nani, di recente, hanno cambiato casa. Capisco che la notizia non sia proprio fra quelle da “prima pagina” nè fra le più piccanti ma, nella vecchia casa, loro ci avevano abitato per circa cinquant’anni e quindi di cose che non sapevano nemmeno di avere ne sono venute alla luce molte. Fra le tante, uno scatolone contenente vecchissime riviste nautiche e uno di fotografie che se non erano dagherrotipi poco ci mancava. E, insieme, anche alcuni vecchi disegni fatti da mio padre negli anni Venti e Trenta quando, dopo aver girovagato, agli inizi di quel secolo, per molte industrie del nostro nord-ovest (Bianchi, Guzzi, Officine Miller, Fiat eccetera) e aver vissuto una decina d’anni negli Usa, a New York e dintorni, era rientrato a Venezia e, nel 1920, aveva aperto un cantiere per la costruzione di imbarcazioni, in doppio o triplo fasciame di legno.

Il regalo per il mio compleanno furono questi disegni. La larga maggioranza rappresentava a colori gli intarsi di legno che potevano avere gli interni delle barche che Celeste Soccol, cioé mio padre, costruiva in quegli anni lontani: una sorta di campionario da proporre ai clienti. Ogni disegno era una sorpresa e mi creava una emozione strana, del tutto nuova e inconsueta: sì, avevo da sempre saputo che mio padre aveva costruito barche per conto terzi. Ma, per motivi personali e storici, non era esattamente questa la visione che io avevo avuto, sin dalla mia infanzia, della sua attività : quando, nell’agosto del 1945, lui é morto, io avevo appena cinque anni…

E’ stato, probabilmente, nei primi anni Trenta che Celeste Soccol ha deciso di fare qualcosa di “molto” particolare. Come ho detto, prima di andare negli Usa, aveva lavorato per parecchie industrie del nord-ovest. Fra queste, nel 1910-11, aveva svolto l’incarico di “capo-motorista” alla Officine Miller-Costruzioni Areonautiche di Torino. Per capire che tipo di azienda fosse questa é sufficiente leggere la carta da lettere originale che, sotto ad un bel disegno di un dirigibile sorvolante, sul cielo della città piemontese, una mongolfiera e un biplano, recita testualmente: “Esecuzione di qualsiasi macchina per volare dietro semplice schizzo. Aeroplani ortotteri. Elicotteri. Dirigibili. Esecuzione di progetti. Motori extra leggeri per aeronautica di qualunque potenza. Brevetti Miller. Materiali per aeroplani, eliche, sospensioni, tele”. La sede si trovava in via Legnano, 9. Le Officine Miller non dovevano essere un semplice covo di picchiatelli perché i motori Miller davano, effettivamente, un sacco di potenza. E quell’esperienza deve aver inciso profondamente nelle decisioni che Celeste Soccol stava prendendo.

Celeste Soccol ,la misteriosa slitta marina–l'idroscivolante

Celeste Soccol ,la misteriosa slitta marina–l’idroscivolante -La fotografia, da sempre disponibile, dell’idroscivolante che per anni era stato creduto un catamarano puro. Secondo calcoli teorici fatti da Renato “Sonny” Levi, questo natante, sotto la spinta di un motore da 300 CV, avrebbe potuto avere una velocità (a scafo leggero) di ben 47,8 nodi

Altro elemento determinante: il 26 settembre del 1914 (quando mio padre era già negli Usa) la rivista “Scientific American” pubblicò un articolo che iniziava con queste parole: “A new type of vessel, wich promises to revolutionize water craft and wich takes the same place on the water the automobile does on land” (Un nuovo tipo di natante che promette di rivoluzionare il mondo nautico e che prende sull’acqua lo stesso ruolo che ha avuto l’automobile sulla terra). Il testo descriveva il brevetto di una carena speciale, depositato in quello stesso anno dal canadese William Albert Hickman. Questa carena si chiamava “sea sled”.

Nel 1929, in Italia, la Piaggio costruì il bellissimo prototipo “PC.7″ (diventato poi più noto con il nomignolo di Pinocchio per il suo lungo “naso”). Si trattava di un idrovolante di nuovissima concezione: tutto l’aereo era in pratica una barca con, sotto il fondo, alette idroplane tipo quelle degli aliscafi dei nostri giorni. Spinto da un motore Isotta-Fraschini Asso I-500 (12 cilindri a V, raffreddato ad acqua, 850 cv) il PC.7 acquistava la velocità di decollo tramite la spinta di un’elica marina e si aggrappava poi all’elica aerea per volare. Insomma, lo stesso motore azionava due eliche: una immersa nell’acqua e una operante nell’aria. La velocità di progetto era di 600 km/h e l’intenzione era di partecipare e vincere la famosa Coppa Schneider, sogno di tutti gli aviatori del tempo. Purtroppo problemi al cambio e di cavitazione sulle alette idroplane impedirono allo splendido progetto di avere le soddisfazioni che meritava.

Sempre nel 1929 si disputò anche la prima edizione della Pavia-Venezia. Allora (e poi per anni) era la più lunga gara motonautica del mondo (431 km). Vinsero, in 11 ore e 26 minuti, Ettore Negri e L. Calvi con uno scafo Celli e motore Elto alla velocità media di 36,670 km/h.

Dall’anno successivo vennero ammessi in gara (con classifica a parte) anche gli idroscivolanti. Non cercate questa parola nei vocabolari dell’epoca: neppure il “Novissimo Melzi” la riporta mentre la leggendaria “Enciclopedia Treccani” vi rimanda al lemme “idroplani” e, ahinoi, fa parecchia confusione.

In sintesi, gli idroscivolanti era scafi a fondo rigorosamente piatto che traevano la loro spinta dall’uso di un’elica aerea brandeggiabile in senso laterale (e quindi in grado di garantire anche la manovrabilità) invece che di una comune elica marina. E’evidente che, mancando ogni attrito d’appendice, la velocità era maggiore. In quella seconda edizione della Pavia-Venezia, infatti, fra le barche tradizionali si impose Theo Rossi di Montelera assieme a Marco Celli alla media di 45,523 km/h. mentre fra gli idroscivolanti la media del vincitore fu di 50,623 km/h. Chi vinse in questa speciale categoria? Non cercatelo nell’albo d’oro della gara: i nomi dei piloti, dei costruttori e dei motori degli idroscivolanti non sono riportati! Quasi fossero figli di nessuno. Eppure, già nel 1936, questi natanti toccarono la media di 91,051 km/h e nel ’39 superarono la soglia dei 100 km/h., mentre le medie degli scafi con trasmissione classica, a fatica sfioravano i 70 km/h.
L’avvento della II Guerra Mondiale sospese la Pavia-Venezia e quando, nel 1952, la gara riprese gli idroscivolanti vennero esclusi.

Nel 1934 a Roma, in via Panisperma, Enrico Fermi e i suoi ragazzi ottennero la prima fissione dell’uranio mentre, nello stesso anno, Adolfo e Benito (dai, che i cognomi sono noti) si incontrarono proprio a Venezia. Erano anni in cui nei testi delle scuole elementari (Vincenzo Meletti, “Libro fascista del Balilla”) si scriveva: “Mussolini, che tutti chiamano Duce e tu puoi chiamare babbo, é un figlio del popolo. E’ l’uomo più grande e più buono del mondo. Egli in un decennio ha fatto diventare l’Italia la prima nazione del mondo. Con la Marcia su Roma il governo fu tolto agli uomini paurosi e fu inagurato il Regime Fascista che durerà più di un secolo.”

Ma mio padre, Celeste Soccol, non si iscrisse mai a quel partito dominante, avendo idee ben diverse in materia. Ciononostante partecipò e vinse appalti per “servizi di Stato” piuttosto significativi oltre che importanti: fra questi uno per la costruzione e gestione di sei imbarcazioni atte alla raccolta della posta (quella che si imbuca: lettere, cartoline) nelle varie cassette disseminate nel Centro Storico della città lagunare.

Queste sei barchette erano molto particolari: dovevano esser capaci, infatti, di navigare i canali più angusti della città, quelli con minor fondale e ad ogni ora del giorno. Come si sa, a Venezia, “per sie ore l’acqua crese e per sie ore l’acqua cala”, in italiano si direbbe che il ritmo delle maree ha un gioco alternato per complessive 12 ore di acqua alta e altrettante di acqua bassa durante l’arco di una giornata. E, quando l’acqua è bassa, alcuni canali della Serenissima consentono la navigazione a scafi con ben poca immersione.

Peraltro, era inconcepibile che un servizio pubblico di quel genere fosse soggetto al ritmo delle maree. Per questo, mio padre progettò una barca da 5,30 m ft per 1,50 m di larghezza con una carena particolare.
Dal punto di vista economico una delle avarie più penalizzanti che possa capitare ad una barca da lavoro é di rompere la trasmissione (asse porta elica, elica) e la timoneria. Cosa che a Venezia é, purtroppo, frequente proprio a causa dei molti “bassi fondali”.

Per evitare questo handicap, Celeste Soccol inventò (siamo nel 1937) una carena con un profondo tunnel che iniziava all’altezza della 6° ordinata di calcolo e arrivava sino allo specchio di poppa. In questo modo la trasmissione e la timoneria lavoravano protette, nell’ombra degli sponsor laterali, l’elica si trovava quasi in superficie e si diminuiva notevolmente l’immersione massima dell’imbarcazione: più piccioni con una fava.

Ricordo di aver raccontato la storia di queste barche particolari con elica “quasi in superficie” a Sergio Sonnino Sorisio, negli anni Settanta quando era molto orgoglioso di aver costruito, in quanto titolare del cantiere Italcraft, quel “Drago” (progettato da Renato “Sonny” Levi) che, per tutti, era la prima barca italiana spinta da un’elica di superficie. Sergio ci rimase maluccio e mi chiese se avessi delle fotografie per provare quanto sostenevo: no, non le avevo. Allora. Oggi, invece, sì e ho di più é stato recuperato, infatti, anche il modellino autentico e in scala, di quella carena. E’ uno di quei modelli, in legno masello a “fette smontabili”, che servivano per estrapolare, in sala tracciato, il piano dei quinti e disegnare le dime per le ordinate della barca: un documento non impugnabile o discutibile. Anche se, lo ammetto e – con l’occasione – mi piacerebbe oggi potermi scusare con Sergio Sonnino che purtroppo nel frattempo ci ha lasciati, parlare di una trasmissione tipo eliche di superficie era esagerato. Per quelle barche. Ma la storia mi avrebbe insegnato che, davvero, non bisogna “mai dire mai”.

Progetto idroscivolante di Celeste Soccol

Celeste Soccol Progetto idroscivolante di Celeste Soccol

Il progetto dell’idroscivolante con elica di superficie e aerea e ala di sostentamento, ritrovato casualmente, oltre 60 anni dopo la sua costruzione. L’imbarcazione doveva trasportare nove passeggeri oltre al pilota, in collegamenti rapidi fra Venezia e Trieste.

Ma torniamo ai regali ricevuti per il mio compleanno. Come ho detto, erano disegni e fra questi anche un “pianta, profilo e sezioni” di una barca con al centro la scritta “Progetto per idroscivolante – Scala 1:20″. Nessuna data. Sul retro, solo il timbro del cantiere Soccol con l’indirizzo e il numero di telefono. Quest’ultimo a quattro cifre, dettaglio importante ma che in quel momento di emozione trascurai del tutto. “Questo é il progetto della famosa barca strana, quel catamarano con l’elica aerea di cui tu hai una foto e…anche l’elica”, mi disse Silvana e Nani aggiunse: “Ne abbiamo trovato due copie, del progetto. Questa è quella più bella. L’altra, che teniamo noi, si differenzia comunque solo perché non ha, al centro, la scritta “Progetto per eccetera” e perchésul retro c’é un appunto scritto da tuo padre a matita”. La foto della barca “catamarano con elica aerea”, è vero, l’avevo io. Mi aveva sempre affascinato e ne avevo fatto fare prima un contronegativo e quindi un ingrandimento 50 x 70 cm. Questo anche per evitarmi lunghe spiegazioni sull’elica da aereo che troneggiava sempre nei vari salotti delle mie diverse case da quando ero venuto a fare il giornalista a Milano.

L’elica bipala di un bombardiere austro u n g a r i c o della Guerra 1915-’18, costruita dalla ditta Lohner. Ha un diametro di ben 280 centimetri ed è servita, assieme ad altre a quattro pale e con diametri differenti, ai test dell’idroscivolante ideato da Celeste Soccol. (foto Antonio Soccol)


Un muro dell’officina del cantiere che era stato di mio padre era tutto letteralmente tappezzato di eliche di aereo. In legno, naturalmente. A due pale, a quattro pale, grandi, piccole, medie: uno spettacolo unico. Il cantiere motonautico qui, e fino al 1958, sembrava quasi l’hangar di un aeroporto della guerra del “15 – 18″ perché, infatti, tutte quelle eliche risalivano proprio a quei tempi.

Lavorate a sottili strati di legno incollati fra di loro con le resine dell’epoca (eppure ancora tengono) erano dei capolavori di artigianato industriale, nel senso che, pur essendo costruite in serie, non potevano esser fatte che a mano, singolarmente, una dopo l’altra: di certo, utilizzando parametri e dime di controllo. Le pale terminavano sempre con una copertura di metallo (rame), sagomata, incollata e chiodata nel legno il che rendeva queste eliche simili a sculture. A bellissime sculture ultra moderne. E il mozzo centrale: era dipinto di rosso (mentre le pale erano lucidate a coppale) e aveva quei suoi dieci fori grossi che servivano per passare i bulloni di aggancio dell’elica al castello e alla catena di trasmissione. Dieci fori che a guardarli ti danno una sensazione di pacata forza, di tranquillità come te la può dare qualcosa che senti che é sicuro, tranquillo, cosciente dei suoi mezzi. Bello, insomma.

Ma, nel 1958, un operaio decise che di “quella roba vecchia” si poteva fare a meno e, senza chiedere alcun permesso, si mise a tagliare tutte le eliche-sculture con la sega circolare per farne legna da ardere. Il mio urlo di disperazione, forse, riecheggia ancora da quelle parti di Venezia: riuscii a salvarne appena una. Bipala e sul mozzo c’è scritto in tedesco: “Costruzione n. 2657, tipo 15; diametro 280 cm, larghezza 35 cm”. Sulle due pale, due stemmi portano la scritta “Jacob Lohner & Co.”.

Quanto alla foto che possedevo era assolutamente frontale: due grandi galleggianti laterali autorizzavano a pensare ad una carena da catamarano classico mentre una cabina piuttosto massiccia sosteneva un piccola ala e all’estrema poppa, in alto, spuntava la pala di questa (o una molto simile) elica aerea.

Avevo spesso chiesto a mia madre che tipo di barca fosse: “Un esperimento di papà per trasportare passeggeri da Venezia a Trieste: sai, erano anni in cui quella rotta, via nave era lunga e via terra…ancora di più. L’idea era di creare un collegamento veloce, come quello che svolgono oggi gli aliscafi. Il progetto doveva esser qualcosa di valido perchè erano venute parecchie persone importanti a vedere: persino – mi sussurrava, abbassando la voce – agenti dei servizi segreti… Era una barca che faceva un sacco di rumore: molto più delle altre. Ma, nonostante tuo padre abbia provato tante diverse eliche d’aereo, il cambio si rompeva sempre e così l’idea é stata messa da parte. Poi é venuta la guerra. E, poi, papà è morto…”, mi rispondeva, guardando fuori dalla finestra della cucina dove, all’orizzonte, spuntava l’isola di San Michele, il cimitero di Venezia dove papà era sepolto.

Adesso, grazie ai ritrovamenti fatti per il trasloco di casa di mia sorella Silvana e di suo marito Nani e al mio compleanno, avevo anche il progetto di quel natante che avevo battezzato (erroneamente) “la barca che doveva volare”. Che potesse volare era da escludere: non aveva alcun timone aereo e poi il nome sui disegni era chiaro: “idroscivolante”.
Mandai subito copie fotografiche dei disegni a Renato Levi “Sonny” all’isola di Wight in Gran Bretagna, a Franco Harrauer a Rio de Janeiro, in Brasile e a GB Frare in quel paesino sperduto in provincia di Macerata dove, come Cincinnato, si é, malvolentieri, ritirato a coltivare la terra. Tutti e tre amici e progettisti che avevano visto elica e foto a casa mia e con i quali spesso avevo parlato e discusso su questo “strano” natante.

“Sonny”, in quei giorni, era ancora in Thailandia dove sverna da tempo, GB era impegnatissimo nella trebbiatura. Il più rapido fu Franco che mi telefonò: “Guarda che quella “pantegana” (così gli piaceva chiamare lo strano natante) ha un’elica di superficie. Feci un salto sulla sedia: “Impossibile”, dissi e aggiunsi: “E’ roba di prima della Guerra, anche se non so la data esatta… mentre il “Drago” è del 1971″. Ma controllai e aveva ragione.

Iniziò così una esaltante, difficile, tormentata ricerca. Incominciai a studiarmi con feroce attenzione i dettagli del progetto: a bordo c’era lo spazio per un solo motore ma era chiaro che l’elica marina, senza ombra di dubbio, era del tipo di superficie: usciva direttamente sullo specchio di poppa e con una inclinazione di spinta calcolabile tra i 2 e i 5 gradi. Fra progetto e foto c’era qualche piccola differenza: risultava evidente che, in fase costruttiva, gli scarponi laterali erano stati allargati, l’ala posizionata a poppa era stata tenuta più corta e che lo strano accrocco disegnato, a prua proprio davanti alla cabina, era stato “non installato” (potrebbe trattarsi di un radiatore, per refrigrigerare l’acqua del motore). E poi c’era il problema della carena: non era un catamarano. O, quanto meno, lo era solo nella visione frontale perchè poi il tunnel si chiudeva e la carena finiva piattissima sullo specchio di poppa: una sorta di V (di prua) rovesciata.

Nel frattempo “Sonny” Levi era rientrato dalla sua amata Thailandia e aveva visto il disegno: “Non vi sono dubbi. E’ un’elica di superficie vera e propria. E anche l’ala é posizionata nel punto giusto, per sollevare le sezioni poppiere dall’acqua: la stessa idea che avevo avuto io per il “Drago” nell’eventualità che mi servisse un aiuto aerodinamico per la planata. Progetto affascinante, mi disse.

Celeste Soccol - Disegno di Franco Harraurer

Celeste Soccol – Disegno di Franco Harraurer

Disegno di Franco Harraurer

Fu nuovamente Franco Harrauer a suonarmi la sveglia ipotizzando un rapporto fra mio padre e Albert Hickman, il progettista canadese per il quale la rivista “Scientific American” si era tanto sperticata in complimenti nel 1914: “Magari si sono conosciuti quando tuo padre era negli States, propose l’amico dalla lontana Rio de Janeiro.
Non impossibile ma piuttosto difficile. L’analisi dello scatolone contenente le riviste nautiche antichissime rivelò, invece, un’altra ipotesi di soluzione. In un numero della testata (di New York) “Motor Boating” del gennaio 1925, quando quindi mio padre era già operativo su Venezia, a pagina 50 appare una prima fotografia di un runabout da 25′ spinto da un motore 6 cilindri Hall-Scott da 200 cv e dichiarato capace di velocità sull’ordine delle 38 mph (33 nodi) grazie ad una elica di superficie e alla carena “sea sled” Più avanti, a pagina 232, un generoso inserto di ben cinque pagine, illustra tutto il catalogo del costruttore nord americano “The Sea Sled Company ltd”, con sede commerciale a New York e cantiere a West Mystic nel Connecticut.

“Cosa c’era scritto sul retro dell’altra copia dei disegni dell’idroscivolante?”, telefonai a Venezia. “Progetto di slitta marina” mi rispose Nani, forse un pò annoiato dalle mille domande che gli andavo ogni giorno ponendo man mano che l’adrenalina saliva dentro di me. La lampadina non si accese: “Ah”, risposi senza registrare più di tanto l’informazione e passando subito ad un’altra serie di punti di domanda: “Sai per caso quando, a Venezia, i numeri di telefono sono passati da quattro a cinque cifre? “Sì, in teoria: nel 1926, la società svedese Erickson venne chiamata a Venezia, dalla Telve- gestore dell’epoca- per installare il sistema BCA (Batteria Centrale Automatica) che permetteva di passare da quattro a cinque cifre e allargare così il numero degli utenti. Ma non é detto che l’impianto sia stato “operativo” subito o che tutta la città lo abbia utilizzato contemporaneamente. In effetti, però, é stato solo nel 1933, quando l’IRI ha dato vita alla Stet, che la Telve venne inquadrata nel nuovo gruppo e si provvide ad un efficace riammodernamento dei suoi impianti, era stata la risposta.

Cercavo di stabilire una data certa per la progettazione e la costruzione di quella barca.
Ad aiutarmi nella laboriosa investigazione arrivò un altro contributo importante: una seconda immagine fotografica. Ancora una volta la barca era ripresa a terra, finalmente un po’ lateralmente: al posto guida c’era un uomo, mio padre, mentre fuori dello scafo, sul lato sinistro, si vedevano due distinti signori in elegante cappotto. Sul retro, un appunto a matita diceva semplicemente “Avv. Suppiej”. Mia sorella mi informò che il cognome corrispondeva ad una importante famiglia veneziana e chiese appuntamento con il figlio di quell’avvocato. “Sì, il più alto dei due, é mio padre “confermò molto gentilmente il Prof. Avv. Giuseppe Suppiej e, successivamente, per lettera mi specificò “Le confermo che la foto è certamente anteriore al 1935 perchè a partire da quell’anno la mia famiglia lasciò Venezia per farvi ritorno stabile solo nel 1965; e solo dal 1922 al 1935 mio padre ebbe veste per occuparsi delle iniziative e delle attività veneziane. Del resto anche l’abbigliamento corrisponde a quell’epoca. Nella seconda metà degli anni “30 mio padre indossava quasi sempre la divisa.”

Ma cosa faceva, negli anni Trenta, l’avvocato Suppiej-padre a Venezia? Quali erano le “iniziative e le attività veneziane” di cui doveva occuparsi? Era responsabile di un ufficio atto a valutare la fattibilità delle opere di grande interesse cittadino. Cose come il ponte Littorio (oggi “della Libertà”) che congiunge Mestre con Venezia, o come il ponte degli Scalzi che “traghetta” sul Canal Grande, dal piazzale della Stazione di Venezia S. Lucia alla, appunto, chiesa degli Scalzi eccetera. Elementi importanti, insomma.

E che ci faceva questo signore davanti alla “strana” barca di mio padre? “Forse doveva valutarne l’interesse per lo sviluppo della città”, suggerisce oggi il figlio. Grazie.

Il range temporale di realizzazione di quel progetto si restringeva dunque.
Ma che fine hanno fatto sia la barca che il misterioso motore che faceva tanto rumore? Il 25 agosto del 1945, gli “alleati” arrivarono a Mestre e mio padre mi portò a vedere le loro attrezzature: era fortemente interessato alle automobili (jeep) anfibie che, con un unico motore e con un unico cambio, potevano azionare sia le ruote motrici sia un’elica marina. Il giorno dopo, grazie alla difficile ma fondamentale mediazione di Francesco Semi, i tedeschi tolsero le mine con le quali avevano deciso di far saltare in aria tutta Venezia e si ritirarono. Così, il 27 gli “alleati” entrarono nel centro storico: in cantiere da noi arrivarono per primi gli inglesi che, ignorando il certificato di nazionalizzazione americana di Celeste Soccol, portarono via tutto quello che aveva un minimo di valore: in particolare tutti i motori (fra cui c’era probabilmente anche quello della “strana barca”) lasciando come unica ricevuta solo la drammatica frase: “preda di guerra”. La sera del 27 stesso, mio padre fu colpito da quella che venne diagnostica come una “commozione cerebrale” e, all’alba del 28, morì.

Quanto alla barca, é molto probabile che, nei duri anni che seguirono, sia stata tagliata a pezzi per farne legna da ardere nella “cucina economica” di casa, dove mamma ogni sera faceva la polenta, nostro “pane” quotidiano.

Fu solo la notte del mio sessantacinquesimo compleanno che il mio arrugginito cervello si degnò di farmi presente, sia pure in modo bizzarro, che, in inglese, “sea sled” significa “slitta marina” e che dunque mio padre, come dimostrava la sua scritta sul retro di una delle copie dei disegni, aveva davvero e inequivocabilmente progettato e costruito su stimolo delle “sea sleds” di Albert Hickman e che, al tutto, aveva poi aggiunto anche la spinta di un’elica aerea sull’onda degli idroscivolanti dell’epoca. Per poi arenarsi su un banale problema di un cambio che si rompeva.

Ma si trattava pur sempre della prima barca con elica di superficie costruita in Italia.

Il mio errore era stato quello di non “tradurre” mai il nome inglese ma di averlo accettato come un qualsiasi nome proprio, fine a se stesso.

Ed é stato proprio a questo punto che, come dicevo all’inizio io mi sono emozionato. La mia crociera-festa alle Eolie é stata, di conseguenza, stupendissimissima: avevo l’animo allegro come il sole. E la notte, sul mare di Stromboli, c’era persino la luna piena.

Arcidiavolo Sonny Levi 1975 - Arcidiavolo - il primo scafo con elica di superficie

“Arcidiavolo”, il primo scafo con elica di superficie a stabilire un record mondiale di velocità assoluta. Progettato da Renato “Sonny” Levi, costruito dal cantiere Acquaviva e spinto da un motore da 8 litri di cilindrata e circa 500 CV, ha fatto registrare sulla base misurata di Sarnico la media sui due “lanci” di 69,67 nodi. Questa foto lo ritrae nella posizione ideale per una barca con trasmissione con elica di superficie: scafo staccato dall’acqua (quasi fosse un aeroplano) e solo mezzo disco dell’elica immerso. (foto Renato “Sonny” Levi)

Più di quarant’anni dopo l’inizio di questa storia: il 20 agosto 1976. Sulla base misurata di Sarnico, l’imbarcazione offshore, classe OP2, denominata “Arcidiavolo”, progettata da Renato “Sonny” Levi, costruita dai cantieri Aquaviva di Bellaria e spinta da un motore Kiekhaefer da all’ncirca 500 cv, stabiliva con 77,94 mph (pari a 125,44 km/h, o meglio, parlando da marinai, a 67,69 nodi) il primo record di velocità assoluta (omologato dall’U.I.M.; record n. 2411), realizzato al mondo da uno scafo con una trasmissione con elica di superficie. Primo pilota era Giorgio Tognelli. Secondo pilota: Antonio Soccol, di fu Celeste.

Arcidiavolo II alla Gara motonautica Viareggio Bastia Viareggio del 1975

Arcidiavolo – il primo scafo con elica di superficie

Un’altra immagine di Arcidiavolo II alla Gara motonautica Viareggio Bastia Viareggio del 1975

Ps: in questo racconto della misteriosa storia della “slitta marina”, teso a riportare alla luce una importante “innovazione nautica”, alcuni dettagli mi sono sfuggiti dalla penna ma non possono assolutamente esser ignorati. Li riepilogo non per dovere di cronaca ma, soprattutto, per gratitudine.

Durante la mia ricerca mi ha moralmente aiutato il Capitano Alessandro Ronconi, direttore del Museo dell’Arsenale di Venezia, al quale mi ero rivolto per sapere se in quell’Istituto vi fossero tracce della “strana barca” e che gentilmente mi ha subito risposto: “La sua descrizione si attanaglia ad una vecchia foto di una strana imbarcazione ripresa a Venezia nel periodo fra le due guerre. Forse si tratta proprio di quanto lei descrive…”. Successivamente, Ronconi ha lasciato l’ncarico e non mi é stato possibile recuperare la fotografia ma grazie lo stesso.

Sono molto grato a Agostino Amadi, titolare dell’omonimo cantiere di Burano (Ve), al quale avevo scritto nella folle idea-speranza di poter costruire ex-novo l’droscivolante. Agostino è titolare di uno degli ultimi cantieri ancora capaci di lavorare “come dio comanda” il legno… e per questo è pieno di ordini al punto che, con rammarico, ha dovuto declinare la mia insana proposta: “Mi piacerebbe, credimi, moltissimo dedicarmi a questa tua grande idea, purtroppo non ne ho il tempo”. L’averla però anche solo valutata è stato per me segno di grande amicizia.
Giorgio Barilani, per anni responsabile dell’Ufficio Tecnico dei Cantieri Riva di Sarnico nonchè past president dell’Aspronadi (Associazione Progettisti Nautica da Diporto), si è gentilmente offerto di presentarmi il signor Leonardo Petroli, principe fra coloro che realizzano modelli storici di barche e navi per cui, forse, avremo un modello in scala della prima barca italiana con elica di superficie. Un traguardo inimmaginabile.

GB Frare, Franco Harrauer e Renato “Sonny” Levi, straordinari amici sin dagli antichi tempi – ormai “superati – in cui progettare barche significava studiare e collaudare idee, mi hanno aiutato moltissimo nella ricerca dei dettagli: “Tu sei d’Artagnan e noi i tre moschettieri: Aramis, Athos e Porthos”, ha sentenziato il primo, disposto a mollare i suoi impegni di trebbiatura per costruire con le sue stesse mani lo “strano natante”. Mi son scordato di chiedergli chi possa, oggi, essere il “nostro” Luigi XIV (anche se un’idea in merito, io ce l’ho). Mille mercis. E un abbraccio commosso a questi tre impagabili vagabondi, ovunque siano in questo momento.

Pubblicato da “Nautica” nel fascicolo 529, giugno 2006, di Antonio Soccol e messo gentilmente a ns. disposizione dalla redazione di www.nautica.it.

“Articolo a scopo didattico-istruttivo, divulgativo, informativo e ricreativo“

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